«La notte precedente al primo allenamento non sono riuscito a dormire: la pallavolo, un palazzetto dove gioca una squadra di serie A ... un'esperienza meravigliosa da incominciare».
Non lo ha scritto un mio atleta e neppure un ragazzo del settore giovanile convocato per un allenamento con la prima squadra. Ha scritto queste parole un detenuto, ospite dell'Ospedale Psichiatrico Giudiziario di Castiglione delle Stiviere. Uno dei nove ragazzi che da qualche tempo, un paio di mattine al mese, dopo aver ottenuto l'autorizzazione da parte del magistrato competente, salgono su un pullmino insieme ai loro operatori sanitari, fanno giusto qualche chilometro di strada e poi entrano al PalaGeorge di Montichiari.
Lì trovano Marco Castrini, il monumentale "angelo" custode del nostro palazzetto, che ha preparato tutto come per l'allenamento della serie A. Gli spogliatoi aperti, il riscaldamento e le luci accese, la rete tesa perfettamente, i carrelli dei palloni pronti, l'acqua sulle panchine. Solo non ci sono le magliette, quelle no. Perché i ragazzi di Castiglione delle Stiviere alla loro maglietta ci tengono, eccome, e a scanso di equivoci se la portano via gelosamente, per riportarla all'allenamento successivo. Già, perché senza la maglietta giusta non ci si allena. Così come se si arriva in ritardo, o se l'allenatore ti becca a fumare. Perché questi ragazzi stanno lavorando per diventare una squadra e le squadre, tutte le squadre del mondo, hanno le loro regole da rispettare.
Non è mai successo: mai magliette dimenticate, mai ritardi... magari qualche sigaretta fuori nel parcheggio... ma l'allenatore sa quando deve far finta di non avere visto. L'allenatore in questione... sono io. Ho conosciuto i ragazzi di Castiglione e lo staff delle persone che si prendono cura di loro alla fine dell'estate quando, invitato, andai ad arbitrare in carcere la finale del torneo di pallavolo. Ci andai con quattro ragazzi, in ordine cronologico i nostri quattro ragazzi più giovani, su mia specifica richiesta. Ci presentammo quella mattina io, Rauwerdink, Bellei, Zito e Mor. Perché il mondo bisogna vederlo. Tutto. Ed è meglio farlo quando si è giovani.
In realtà quel mondo ci sembrò meno tetro di quello che ci aspettavamo. Incontrammo persone. Semplicemente persone. Persone che organizzavano quell'attività con grande cura, affetto. Persone che guardavano, facendo il tifo. Persone che giocavano senza pensare alla tecnica o alla tattica. Ma giocavano, eccome. E con un'intensità che qualcuno rischiava anche di farsi male. Vedemmo persone, anche commuoversi di fronte alla vittoria.
Uscendo pensai semplicemente che avevamo visto una cosa bella e che valeva la pena dare loro la possibilità di continuare quello che stavano facendo, visto che in carcere l'unico posto dove fare pallavolo è un campo all'aperto e l'inverno stava arrivando. Quelle persone che avevo incontrato erano (e sono) detenuti. Detenuti che hanno commesso crimini, anche gravissimi. Che hanno commesso quei crimini in una condizione psichica alterata e sono stati condannati a scontare la loro pena all'interno di un Ospedale Psichiatrico Giudiziario. Una volta si chiamava manicomio criminale.
Dimenticatevi, vi prego, ogni giudizio, O almeno sospendetelo. Io non posso e non voglio sapere per quale crimine i ragazzi che alleno sono stati condannati. Li vedo per quello che sono: ragazzi che si esprimono attraverso lo sport. Come ne ho visti migliaia nella mia carriera. Ragazzi che stanno facendo un percorso che nessuno sa dove porterà.
In questo caso il percorso è diverso ed è diverso anche il punto di arrivo. Se ce ne fosse stato bisogno l'ho chiarito il primo giorno di allenamento, quando ho radunato i miei nove giocatori in cerchio (più o meno tutti fra i quaranta e i cinquant'anni) e ho detto loro: "Sia chiaro. Nessuno di voi ha la minima chance di arrivare a giocare in serie A, siete la peggior squadra che io abbia mai allenato!", suscitando una bella risata collettiva. Perché a questi ragazzi non interessa arrivare in serie A, ma interessa scoprire quanta forza trasmette il far parte di una squadra.
Senza riempirsene troppo la bocca, solo essendo squadra.
Nel vestirsi in modo uguale, nel muoversi insieme, nell'avere le stesse regole, nel pranzare insieme dopo l'allenamento, nello scrivere le proprie emozioni e sensazioni nel "diario" che sto chiedendo loro di redigere. Nel vincere e nel perdere.
Tutti loro hanno già chiara l'esperienza della sconfitta. Quasi sempre di una sconfitta vissuta come tragicamente individuale. Io non so se e quanto posso aiutarli e neanche so quanto di ciò che io e il loro staff stiamo facendo resterà nella loro vita. Però mi piacerebbe che passasse un messaggio, uno soltanto. A loro e anche a voi che state leggendo di questo progetto. Ciascuno di noi si può porre di fronte a ciò che è "diverso" con due atteggiamenti: di chiusura, diffidenza, spavento, terrore, oppure di curiosità, di permeabilità, di desiderio di arricchimento. Recepiamo ogni giorno migliaia di messaggi del primo tipo. Io credo invece che tutto ciò che è diverso sia arricchente. Bisogna solo sforzarsi di trovare un linguaggio comune. E un obiettivo comune.
Ho allenato atleti italiani, finlandesi, brasiliani, greci, olandesi, spagnoli, bulgari, ucraini, serbi, croati, argentini, cubani, tedeschi, australiani, colombiani. Ho allenato in Italia, in Finlandia e in Grecia. Ho sempre, da chiunque e dovunque, imparato delle cose. Oggi posso dire che alleno anche gli ospiti di un Ospedale Psichiatrico Giudiziario. Capita spesso che, sogghignando, qualcuno mi chieda: "come vanno i tuoi matti?".
Non mi offendo, tutt'altro. Sono stati i matti ed i curiosi a segnare la storia del mondo. Mai i "normali".
Noi non siamo una squadra "normale", siamo la peggior squadra che io abbia mai allenato. E ogni volta che lo dico ci ridiamo su, facciamo il nostro urlo e incominciamo ad allenarci.

L'articolo è stato pubblicato su Pallavolo Supervolley di febbraio 2009. Anche nel 2009-10 Mario Berruto è allenatore della Gabeca Pallavolo Brescia (ex Montichiari), oltre che della nazionale finlandese maschile.